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Il mio parto - 2 parte

Ero a digiuno da pranzo, stanca e dolorante, ormai chiunque passava davanti la mia sala travaglio buttava un occhio dentro, per vedere a che punto fossi.

Non ho avuto la percezione delle ore, ad un certo punto fuori la finestra è diventato scuro, era sera ed è arrivata con il buio una giovane ostetrica, Viviana che mi prende subito di petto, mi fa parlare, mi sprona e cerca di farmi visualizzare il piccolo. Nel frattempo, ho iniziato ad avere la sensazione di voler spingere, dopo tante ore di induzione, quindi l’arrivo di questa dottoressa non è un caso: a mano a mano che passano i minuti, arriva anche la ginecologa e una specializzanda, che iniziano a sistemarmi per il parto vero e proprio.

Io nel frattempo, cerco di immaginarmi il piccolo, la sua posizione, mi domando se avrà i capelli folti o se avrà solo la peluria, e i dolori si fanno sempre più intensi (mi hanno già rabboccato l’epidurale diverse volte, ogni volta con un medico differente, ora c’è Fabio), così proviamo alcune posizioni per provare a spingere: supina, accovacciata, carponi, con il maniglione… e alla fine, quella in cui le mie spinte sembrano essere più incisive è proprio la classica, semi seduta con mani e piedi in apposite staffe, mio marito che si trova dietro di me mi regge e massaggia la schiena. Ormai sono completamente dilatata, ma mi mettono un’altra volta l’epidurale, perché sono concentrata più sul dolore delle contrazioni che sulle spinte e questo non va bene.

Inizio a spingere e ad urlare. Si, come si vede nei film, non me ne frega nulla. Tra una spinta e l’altra chiedo che ore sono, perché non devo andare oltre mezzanotte, il nostro bambino “ho deciso” che deve nascere oggi.

Urlando come una pazza, iniziano ad affacciarsi altri medici nella stanza, io che cerco di convincere il piccolo ad uscire, chiamandolo per nome, urlandogli che sono stanca (e mi vengono in mente i racconti di mia madre sul parto di mio fratello, che gridava “non ce la faccio più”); mio marito sempre presente con le parole e le sue carezze, mi fa sentire il suo amore nella pressione che mette sul mio corpo.

Ma ad un certo punto, qualcosa cambia nella stanza. Io sono annebbiata dalla stanchezza, dai farmaci e dal dolore, ma ci sono tanti, forse troppi medici in quella stanza: un paio di anestesisti, diverse specializzande ostetriche (Cristina sta alla mia sinistra, non mi ha mai mollata), Alessandra la ginecologa, Cristine l’ostetrica e altre figure non subito identificate, per un totale di una decina di medici intorno al mio lettino e le loro facce, non sono più tanto rilassate come qualche ora fa.

Avevo chiesto di non essere tagliata e speravo non dovessero usare altre maniere forti, invece in pochi minuti, la situazione cambia: la dilatazione è completa, ma il bambino è girato e non riesce ad uscire perché la posizione non glielo permette. Oltretutto, sembra come essersi incastrato da qualche parte (non ho voluto sapere), quindi dopo la spinta, sembra quasi che torni indietro: insomma, di uscire non se ne parla proprio. Provano anche a mettermi dell’olio d’oliva sul collo dell’utero (me l’ha detto mio marito, non mi sono accorta di nulla) per provare a farlo scivolare, ma niente. Allora arriva il Dottor Paolo che mi parla e poi prende in mano la situazione (solo dopo ho scoperto, dal colore del suo camice, che è il ginecologo di emergenza): in pochi minuti ognuno si mette in una determinata posizione; davanti a me ci sono Cristine e Alessandra, che in un momento di mio delirio, prendono e mi tagliano (si, praticano l’episiotomia per aiutare l’uscita, e sento come uno strappo freddo tra le gambe), mentre l’ostetrica Viviana, lega un lenzuolo al letto per fare più pressione: a lei tocca la manovra di Kristeller (consiste nell'applicare una spinta sulla pancia con lo scopo di facilitare l'uscita della testa), visto che il bambino non ha la giusta spinta.

Un’altra ginecologa (che è sempre stata lì con noi, ma di cui non ricordo il nome) mi dice che l’unico modo per far venire fuori nostro figlio, è usare la ventosa (un’altra cosa che mai avrei voluto) e quindi, la vediamo che con forza fa pressione sulla testa del piccolo, mentre io spingo e urlo, ed insieme a me spinge anche Viviana. Sono stati attimi veloci, non so neanche quanto è durato tutto, lo rivivo al rallentatore, ma il Dottor Paolo si mette davanti, dice di dare una ultima spinta con forza e dopo un attimo, senza sentire dolore, ma solo una sensazione di rilassamento, vedo scivolare da sotto le mie gambe il corpicino del piccolo, di un colore tra il viola e il grigio, pieno di sangue, che emette un suono dopo pochi istanti; tagliano il cordone e vedo che esce la placenta e il bambino lo portano via e ci sono ancora tutti quei medici intorno ed iniziano a cucire e chiedo quanti punti metteranno…

Nel frattempo dicono a mio marito di raggiungere il bimbo per il lavaggio e la vestizione in pediatria, ed io non ci capisco nulla. Sono diventata mamma. Siamo diventati genitori. Ma mio figlio non l’ho visto, ho sentito qualcuno che diceva “orario di nascita 23:09” ed ero contenta perché era ancora il 13, ma intorno la situazione era concitata: le dottoresse davanti a me hanno ancora quella espressione critica, continuano a tamponare e mettere garze, ma non riescono a capire da dove viene l’emorragia, così chiamano il Dottor Lorenzo che con l’ecografo, cerca di vedere che succede nel mio utero, ma senza risultato.

Ora inizio a piangere: sono super debole, le espressioni dei medici non mi rassicurano e non ho visto mio figlio, non so che succede e Cristina mi tiene al mano e mi dice sì, che mi posso sfogare dopo tante ore di travaglio (ben 24h), ma che devo stare tranquilla perché la situazione è sotto controllo, ma io ho paura.

Per fortuna, arriva Mr P. con la culletta e il piccolo e la pediatra, che mi dice che sta bene, che pesa 4020 gr ed è lungo 53 cm, lo vedo con quella tutina azzurra che non si chiude sul colletto, il cappellino che non gli entra del tutto e mi scoppia il cuore di gioia. NOSTRO FIGLIO E’ NATO.

Le dottoresse mi dicono che per bloccare l’emorragia, metteranno un palloncino nel mio utero, chiamato Bakri, che gonfiandosi riesce a toccare le pareti dell’utero e blocca l’uscita del sangue, insieme al catetere vescicale. Non posso far altro che affidarmi a loro e trepidante, aspetto il momento in cui, potrò prendere in braccio mio figlio e baciare mio marito. L’inserimento dura pochi minuti e poi mi spostano su un altro letto, pulito, dove mi stringono le braccia forti di mio marito.

Lancio uno sguardo alla stanza: per terra ci sono chiazze di sangue, garze e tutto il vissuto di questa pazza notte. Mio marito è sconvolto, stanco e preoccupato: mi dice che il dottor Paolo ha dovuto fare una manovra che si chiama distocia della spalla sul bambino, in quanto la spalla era rimasta bloccata e facendo pressione poteva recargli dei danni, che fortunatamente non ci sono stati.

Ormai è un altro giorno e l’importante è che noi 3 finalmente siamo insieme.

FINE SECONDA PARTE

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