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Il mio parto - 3 parte

Avevamo passato troppe ore in quella sala travaglio-parto, e specie nell’ultima parte della notte, mai da soli. Ora che finalmente eravamo in 3, decidono di portarci in un’altra stanza, generalmente dove lasciano riposare chi ha fatto il cesareo; possiamo avere un po’ di “intimità”, iniziamo a conoscerci, ad annusarci, a farci stringere le dita da quelle mani piccine e grinzose, a far attaccare quella boccuccia al mio seno. E tremo. Non ho mai smesso di tremare da tutta la notte, solo durante le spinte le gambe si fermavano e non tremavano. E ho fame e sete, ma ho tanti di quegli antidolorifici ed anestesia, che devono passare ancora un paio d’ore prima di poter mangiare qualcosa.

Mi ricordo di aver pianto di stanchezza, ricordo il cappellino del piccolo che non gli entrava e la tutina aperta sul collo; mio marito mi accarezzava la faccia dicendomi cose dolcissime… Poi ad un certo punto, un altro via vai di medici, per vedere come stavamo, per chiederci se andava tutto bene. Avvisano mio marito che ha ancora una mezz'oretta di tempo da passare con noi, poi però deve andare, allora mi passa una bustina di carta, che sarebbe stata la mia cena: una crostatina di ricotta e visciole, comprata nel pomeriggio da mia mamma al Ghetto (è un dolce tipico della tradizione ebraico-romana) e così, io mangiando e lui guardando con amore prima me e poi il piccolo, passa gli ultimi minuti prima di tornare a casa. E’ sfinito e sono le 3 di notte.

Io e il piccolo riusciamo ad appisolarci fino alle 6, poi passano nuovamente i medici, per controllarci prima di staccare dal turno: ma ho la febbre, così insieme ad un’altra dose di antidolorifico, mi danno in vena anche la Tachipirina e mi dicono che mi hanno fatto le analisi del sangue: purtroppo ho perso molto sangue, il valore dell’emoglobina è sceso a 6 (il minimo dovrebbe essere 12, io in gravidanza ho avuto 10,5 ed ero al limite), così più tardi mi attaccheranno anche un farmaco a base di ferro, per scongiurare di dover fare una trasfusione di sangue.

Sono confusa e stanca ma felice; ho la cannula venosa che mi fa male e mi vedo le mani di un colore orribile. Il piccolo è buono, si attacca pigramente al seno e torna a dormire, cosa che vorrei fare anche io, senza riuscirci: sono arrivati i nuovi medici che devono controllarci e per tutta la permanenza in ospedale da quel giorno, tutti esordiscono con “questo è il bambino grosso! E lei come ha fatto signora?”.

Dopo la flebo al ferro, decidono di portarci in camera (le mie compagne mi avevano vista solo un paio d’ore il primo giorno, tanto che una è anche cambiata), per iniziare la nostra degenza.

Ma che fatica: non riesco a muovermi per il dolore e il fastidio dei due cateteri; quando il piccolo va cambiato o deve mangiare, suono il campanello e devono venire a portarmelo dalla culla al mio letto, perché non ho le forze e non riesco proprio a spostarmi; i primi cambi di pannolino li fa mio marito con l’ostetrica ed io devo ancora familiarizzare con l’idea di essere mamma.

Quella notte un incubo, tre bimbi in stanza, appena smetteva di piangere uno attaccava l’altro; io che facevo leva sui gomiti per provare a fare qualche movimento e spostamento, ma l’unica cosa che ho fatto, è stato sbucciarmi il gomito sfregandolo sulle lenzuola.

La mattina passa la ginecologa (una nuova) che mi dice che toglierà il Bakri – il palloncino – e visto che i valori del sangue non sono saliti per niente, dovranno farmi la trasfusione. Dopo che il palloncino viene tolto (rimane comunque il catetere vescicale), vengono le ostetriche per il consueto giro per lavare e vestire le pazienti: finalmente ho lavato i denti e la faccia, mi aiutano a pettinarmi e ad infilare una camicia da notte pulita e mi mettono seduta per qualche minuto e miracolo, già mi sento un’altra persona. Mi sento più bella anche se ho un colorito tendente al verde, anche se mi si è formato un nodo ai capelli e ho le mutande di rete. Ma so che quando arriverà mio marito, sfoggerò anche un bel sorriso e piano piano, le cose andranno al loro posto.

Ultima notizia bella della mattinata: mi trasferiranno in un’altra stanza, più vicina alla sala infermiere e con due letti: mi trasferiranno lì a breve e poi, una volta sistemata a letto, sarà il momento della trasfusione.

Inutile dire che sono stata molto meglio, la stanza anche più luminosa e con una compagna molto simpatica: Giorgia con il piccolo Silvio.

Come si dice, “tutto è bene ciò che finisce bene”, ho vinto un secondo ago cannula, che è stato con me fino a mezzora prima di essere dimessa, era un po’ il mio portafortuna; sia noi che Giorgia e Silvio abbiamo avuto delle piccole complicazioni, quindi siamo rimasti in ospedale di più, ma eravamo molto in sintonia, anche i nostri mariti si sono trovati e i piccoli, sono stati bravissimi di notte, lasciandoci riposare in tranquillità.

E lei, mi ha dato molti consigli, l’ho tempestata di domande (è il secondo figlio) e abbiamo riso un sacco, tanto che ci facevano male i punti.

E allora martedì mattina, abbiamo chiuso le borse e abbiamo aspettato i papà (dopo visite per noi mamme e con il pediatra per i piccoli): finalmente, una volta uscita dall’ospedale alla soglia del 7° giorno, sono scoppiata a piangere di felicità, perché ORA INIZIA LA NOSTRA NUOVA VITA COME UNA FAMIGLIA (quella con la F maiuscola)!

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